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Titolo originale

Eva e Adamo

Regia

Vittorio Moroni

Sceneggiatura

Vittorio Moroni, Marco Piccarreda

Fotografia

Marco Piccarreda

Montaggio

Marco Piccarreda

Musiche

Mario Mariani

Produzione

50Notturno

Distribuzione

50Notturno

 

Nazione

Italia

Anno

2009

Durata

77 min.

Caratteristiche tecniche

35mm - Colore

I commenti sul forum (Ultimo commento di admin)

Mercoledì 30 Settembre 2009 16:31

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Eva e Adamo

Peccato Originale

immagine

L'ultimo, controverso film di Vittorio Moroni, un'esplorazione dell'universo di tre donne qualunque e dei misteriosi territori di confine tra fiction e documentario.

Vittorio Moroni è un oggetto molto particolare nel panorama cinematografico italiano contemporaneo, fondamentalmente per due motivi. Il primo è l’orizzonte estetico del suo lavoro. Nel corso di tutta la sua filmografia, il quasi quarantenne regista di Sondrio ha già esplorato buona parte dello spettro narrativo che va dalla presenza di un soggetto, di una messa in scena preordinata e meditata e di attori professionisti, di cui il lungometraggio d’esordio, Tu devi essere il lupo (2005), costituisce un esempio abbastanza fedele (e ancor di più i suoi cortometraggi d’esordio, come ad esempio Eccesso di zelo - 1997 -, il suo saggio di fine corso alla Civica Scuola di Cinema di Milano, nel quale prevale un’idea narrativa forte e un trattamento stilistico à la Léos Carax, dall’alto grado di formalizzazione e forte di un découpage portato quasi ai suoi limiti più estremi), fino a slanci sperimentali e rosselliniani come Le ferie di Licu (2006), nel quale il pedinamento costante del protagonista del tutto libero da un soggetto e da una sceneggiatura preordinati si unisce a un trattamento stilistico profondamente low-fi, tutto concentrato sulla costruzione di una scena dall’altissimo grado di permeabilità e perennemente sbilanciata verso il documentario fino alla periferia estrema del diario di viaggio, già esplorata da Moroni nel suo bel diario di viaggio del suo soggiorno in India, Disperanze. Lettera dall'India (1999) nel quale il lirismo che caratterizzava la sua produzione di marca finzionale si innesta con la permeabilità della sua deriva documentaristica, un uso delle musiche sempre più consapevole e ipertrofico e una declinazione molto straniante dell’intimo, del personale, a cavallo tra il diario di viaggio e il reportage socio-geografico. Una tensione che fa di Moroni uno degli interpreti italiani di maggior rigore della temperie cinematografica che, in Italia, declina per il cinema l’idea di docu-fiction, una temperie che sembra fare capo a film come Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti e al lavoro di autori come Vittorio De Seta, capostipite ideale della vague, Agostino Ferrente, Edoardo Winspeare. E a proposito di Il vento fa il suo giro, veniamo al secondo punto che fa di Moroni un curioso outsider del cinema contemporaneo, le sue modalità auto-distributive e auto-promozionali. Fin dal suo primo film, Moroni ha creato diverse strutture, ora confluite nella 50Notturno, la fabbrica dove si producono, si distribuiscono e si altpromuovono i suoi lavori, grazie ai cui metodi piuttosto concreti e spicci i suoi film non solo sono arrivati in sala, contrariamente alle decine di opere di qualità italiane relegate in qualche pionieristico cineforum (come quelli – spot pubblicitario - che l’Associazione CinemAvvenire organizza, come le rassegne I Nuovi Territori della Docufiction e National Treasure, che da venerdì riprenderà la sua programmazione) o peggio appese, come gli scarpini, al chiodo di polverosi scaffali, ma vi sono rimasti per ben più di quei sette miseri giorni a cui sono destinati buona parte dei prodotti italiani più di nicchia, più sperimentali. Coupons, viaggi della speranza nei più sperduti cineclub e sale parrocchiali della provincia italiana, strategie di marketing porta a porta per aggirare l’imbuto della distribuzione e arrivare al pubblico con le proprie gambe. Possiamo certamente discutere sul futuro e sull’efficacia di questa forma di “cinema a contributo”, termine che con un tono piuttosto cinico mutuiamo dall’editoria, mercato nel quale è oramai prassi quotidiana far pagare gli autori per fargli pubblicare la loro speso e volentieri mediocre opera della vita, oppure in grado di far restare in sala per non so quante decine di settimane un film come Il vento fa il suo giro che, senza una distribuzione, ha iniziato la sua scalata da un piccolo cinema di Milano giungendo a stanziare per mesi e mesi negli schermi di tutta Italia, schiudendo orizzonti pazzeschi per il cinema di nicchia e di qualità.
Sta di fatto che questo piccolo rullo compressore creato da Vittorio Moroni e dai suoi collaboratori di sempre ha dato un senso al lavoro di tante persone, facendo giungere con fatica ma soddisfazione il film a un pubblico. Lo stesso pubblico che, nelle sue reazioni talora decisamente scomposte, ha costituito oggetto di grande interesse nel corso della proiezione dell'ultimo film di Moroni, Eva e Adamo, alla quale presenziava il sottoscritto, che ha iniziato la propria corsa al altcinema Quattro Fontane di Roma, e al quale auguriamo ancora cento di queste settimane. Un pubblico che, in barba a tutti i distributori ottusi e senza fantasia che pensano che il documentario sia una cosa noiosa, ha sottolineato con un tifo quasi da stadio la lunga serie di colpi bassi e di provocazioni sotto la cintura che Moroni ha innescato in questo suo terzo film.
Eva e Adamo si costruisce sull’alternanza di materiali diversi, dalle interviste alle vere e proprie ricostruzioni di scene di vita quotidiana, sul modello del genere televisivo, che riguardano tre strane coppie italiane. Erika e Moussa, lei ultrasettantenne in preda a una seconda adolescenza, lui giovane e bello, immigrato musulmano proveniente dal Senegal; Deborah e Filippo, lei ex-diva sexy di Divafutura Channel scappata da casa a quattordici anni che vive a Milano con lui, giovane e sfaccendato ragazzo meridionale; Veronica e Alberto, lei infermiera lui tetraplegico ormai ridotto in carrozzella, di cui Veronica si prende cura. Il film, oltre a essere così frammentato, ricostruisce le storie nel tempo e nel passato. Le ricostruisce nel tempo nel senso che a tratti alterna sequenze originali girate da Moroni con la sua macchina digitale con filmati e foto di famiglia che ripercorrono la vita di queste coppie. Le ricostruisce nel passato nel senso che l’autore, come d’altra parte non riuscì a fare neanche in Le ferie di Licu, non rinuncia fino in fondo a un soggetto forte, a una storia: dopo un primo blocco di sequenze introduttive, iniziamo a scoprire che a Moroni interessano le donne. Erika è un’anziana ricca con due matrimoni falliti alle spalle che ha scelto di crescere da sola le sue figlie; Deborah è rimasta orfana del padre, che nel film appare ritratto in vecchie foto, che lei ricorda bellissimo in lussuose vacanze esotiche a bordo di uno yacht; Veronica ha deciso di cambiare le sue aspirazioni, da scultrice a infermiera, dopo la morte, nel sonno, a neanche diciotto anni, del suo dolce amore adolescenziale, Nicola. Ecco chealt Moroni complica le carte del documentario, ri-significa il presente talora comico di Erika, talora drammatico di Veronica, talora squallido di Deborah, con un retroterra familiare che ci dà altre informazioni su questo rimosso irrecuperabile, questo vissuto che si colloca troppo al di fuori delle maglie possibili e contemplabili del cinema documentario, condannato all’eterno presente del reale e al misero e frammentario passato del racconto a voce e dei filmini di famiglia.
Tutto era nato alla fine del tournage del precedente Le ferie di Licu, racconta Moroni, quando per la prima volta gli venne in mente che, spesso, nessuno di noi sceglie in maniera del tutto autonoma il proprio partner, ma sempre sotto l’influsso della propria personalità, della propria psiche, dei propri automatismi. Ecco che Moussa appare un giovane cacciatore di dote, Filippo l’eterno uomo/bambino che Deborah ha scelto tra gli inadeguati a darle tutto l’amore di questo padre idealizzato nel fiore degli anni, Alberto è la libertà di Veronica nel servire devotamente il ricordo del suo primo e irraggiungibile amore. Tendendo al massimo i suoi due fili, Moroni dà vita a un prodotto a metà tra il documentario anti-etico che rinnega ogni norma deontologica, visto che dei protagonisti viene restituita un’immagine che prescinde totalmente dalla loro volontà (ma non è forse questo ciò che succede oggi nei reality show televisivi, allorché il giudizio di un personaggio pubblico dipende ormai soltanto dallo spettatore?), e il film di finzione a direzione obbligata che pretende di spiegare tramite una significazione psicanalitica le loro scelte vita. Un cortocircuito formale che si dà tanto più nella sua evidenza di processo che non nella sua natura di film, di prodotto finito che, come detto, non sta né dall’una né dall’altra parte. Questo film elabora in maniera semplice e diretta il liminare tra fiction e documentario, restituendo un prodotto che, al di là delle contraddizioni già evidenziate, rimane un qualcosa di controverso, poderoso, a tratti difficile da guardare per il grado di intimità nel quale entriamo quando ascoltiamo le confidenze di alcuni personaggi (colpisce molto la madre di Deborah che parla male di Filippo, come se fosse un reality show, ma non lo è), a tratti eccessivo nella carica retorica, alla quale coopera anche una scelta ipertrofica per quanto riguarda le musiche, sicuramente poco rispettoso quando costruisce l’alternanza tra comico e drammatico intervallando sequenze della complicata quotidianità di Veronica e Alberto con scene di Erika in palestra, che immancabilmente suscitano l’ilarità della sala. Un film politicamente scorretto, che il numeroso pubblico ha commentato in diretta, sottolineando con partecipazione il comportamento dell’una, tacendo con dignità nelle parti degli altri, ma prendendosi con il film una confidenza che, forse, non è solo dovuta al grado di amicizia con il regista, quanto ai risultati di una libertà che Moroni si è preso nei confronti dei suoi personaggi che risponde al fine sublime di mandare definitivamente in tilt il rapporto tra fiction e documentario.
Con la stessa leggerezza con cui prima di entrare in sala abbiamo addentato la succosa mela offertaci da Moroni in persona e dal consorzio della Valtellina che le ha gentilmente messe a disposizione, questo regista/serpente biblico ci tenta a mordere la mela del significato, della consapevolezza, ci offre la possibilità di abbandonare il nostro Eden, in cui queste sono coppie felici, per essere coscienti della loro storia. Come a ricostruire la nostra posizione di spettatori del cinema lungo l’arco di tutto il Novecento, nei primissimi anni appassionati di vedute, dalle quali era impossibile e inutile trarre una storia, fino all’uscita dal nostro Eden contemplativo con la nascita della narrazione, che ci metteva in condizione di dover partecipare, con tutti i nostri pregiudizi e le nostre “competenze” di vita vissuta, al significato per il quale il film e i suoi personaggi lavoravano. Una tempesta cognitiva al centro della quale Eva e Adamo ci vuole collocare per farci sentire come fa freddo in cima al punto più alto di questo ottovolante che, per noi, è uno dei pochi modi per tentare di realizzare come eravamo nel 1896, quando siamo fuggiti in preda al panico di fronte alla locomotiva dei Lumière che ci veniva addosso.

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